Dieci anni di lavoro all’insegna del cambiamento

21 Gennaio 2019

In questi giorni i social sono stati attraversati da una delle tante trovate diventate virali, la cosiddetta #10yearschallenge: gli utenti del web hanno fatto a gara a postare foto di come erano dieci anni fa e come sono diventati oggi, spesso lasciando commenti su come le loro vite e loro stessi siano nel frattempo cambiati. Noi abbiamo pensato di condividere con voi una riflessione proprio sul tema del cambiamento scritta dalla nostra presidente e contenuta nello speciale bilancio di missione per i primi dieci anni di attività che abbiamo pubblicato qualche mese fa, e una serie di dati per raccontarvi come e in che cosa siamo cambiati anche noi a Pianoterra.

Buona lettura!

Affiancare le persone più vulnerabili in un percorso di cambiamento: è forse questa la sintesi più precisa dell’essenza di Pianoterra. Ogni giorno, ci sforziamo di accompagnare il cambiamento contribuendo a imprimergli una direzione e a fornirgli l’energia necessaria – fiducia, autostima e altre risorse che spesso sono nascoste. Cerchiamo di attivare queste risorse, di mettere in luce le alternative, di aprire finestre su altri mondi. Lavorare per il cambiamento, per avviare con le persone che incontriamo un percorso di autonomia e di uscita da una condizione di dipendenza, significa lavorare con il cambiamento, interagire con tutte le sue manifestazioni, anche le più piccole e apparentemente trascurabili.

Pianoterra ha dieci anni. Come tutte le cose vive, anche la nostra organizzazione è cambiata: è cresciuta, si è trasformata adattandosi alle situazioni, agli incontri con le diverse realtà con cui è entrata in relazione.

Quando assieme agli altri soci fondatori iniziammo a ragionare su cosa Pianoterra dovesse essere, il mio desiderio era di creare uno spazio che offrisse ascolto a persone in difficoltà, dove queste potessero sentirsi accolte e non giudicate, dove potessero tirare un sospiro di sollievo, metaforicamente ma anche in senso letterale. Immaginavo un luogo dove fermarsi per un po’, dove trovare riposo da quell’affanno fatto di ansia, paura, diffidenza e spesso solitudine, che colora il vivere quotidiano di chi, per esempio, è senza lavoro, senza il sostegno di amici e familiari perché si trova in un paese straniero, senza un compagno nel delicato periodo della gravidanza e della nascita di un bambino, in condizioni di marginalità e solitudine. Vedevo uno spazio calmo e accogliente dove poter tornare in contatto con quella parte di sé che facilmente si perde nelle mille complicazioni del quotidiano e che è proprio la parte dove sono custodite le nostre risorse.

In dieci anni abbiamo visto moltissimi piccoli grandi passi, momenti che confermano la nostra idea iniziale: accoglienza, ascolto e rispetto dell’altro, che sono alla base delle nostre azioni, possono essere non solo un sostegno prezioso nel processo di cambiamento, ma anche il detonatore che innesca il processo. Ogni lavoro di trasformazione dovrebbe partire da qui, tenendo a mente che il vero potenziale di ciascuno spesso è celato da pesanti strati di sofferenza, di fatica, di paura.

Osservare i dettagli della nostra condizione di esseri umani in un mondo tanto complicato può essere spaventoso e scoraggiante; è facile essere sopraffatti dal senso di impotenza. La paura che proviamo ha una qualità paralizzante: finiamo per dire “le cose stanno così”, “quella persona è nata così”, “io sono fatta così”, “il mondo funziona così”, come se la realtà fosse qualcosa di immutabile, come se non ci fosse niente da fare. Dimentichiamo che tutto ciò che vive è in continuo movimento, che tutto continuamente cambia, e che questa qualità è l’essenza stessa della vita.

Frank Ostaseski, fondatore dello Zen Hospice Project di San Francisco, nel suo libro “Cinque inviti” scrive: “È paradossale che, mentre tutti siamo d’accordo che la vita sia un flusso continuo, preferiamo attaccarci all’illusione di essere qualcosa di solido in un mondo mutevole. ‘Ogni cosa cambia tranne me’, ci diciamo” (Frank Ostaseski, Cinque inviti. Come la morte più aiutarci a vivere pienamente, Mondadori 2017). Ostaseski si ispira all’insegnamento buddista dell’impermanenza, spesso frainteso con l’idea che “tutto finisce”: in realtà il Budda ci invita a notare che tutto cambia e che nulla esiste se non in relazione a cause e condizioni. Questo, nell’insegnamento buddista, riguarda ogni aspetto della realtà, compreso il sé.
Cambiare – punto di vista, abitudini, comportamenti – è essenziale per la crescita personale di ciascuno, in qualunque circostanza, ma è sempre difficile: è difficile rompere l’inerzia, interrompere il circolo vizioso, spesso dalle radici antiche, che ci obbliga a muoverci in un solco profondo. Il cambiamento ha bisogno di una certa dose di energia, di risorse e di fiducia. Decidere di cambiare significa decidere di rischiare, implica l’abbandono delle certezze e il confronto con forze avverse spesso molto potenti – fantasmi della psiche o realtà sociali e culturali – che contrastano il cambiamento nel tentativo di mantenere lo status quo. Alejandro Jodorowsky attribuisce questo desiderio di ostacolare, di congelare, al Diavolo in persona: “(…) di fronte alla divina impermanenza combatto per conservare l’istinto, per congelarlo in una scultura fosforescente. (…) E rimango lì, tentando di unire tutti i secondi gli uni con gli altri, di frenare il trascorrere del tempo” (Alejandro Jodorowsky e Marianne Costa, La via dei tarocchi, Feltrinelli 2014).

Da dieci anni accompagniamo persone vulnerabili nei processi forse più delicati della vita: uomini e donne che diventano genitori, bambini piccoli che muovono i primi passi, ragazzi che affrontano il periodo turbolento dell’adolescenza. In particolare ci rivolgiamo alle donne in gravidanza, un momento dove tutto cambia: cambiano il corpo e la relazione con il corpo, cambiano i livelli di energia, il tono dell’umore, l’intensità delle emozioni, cambia la relazione con il compagno, in molti ambienti cambia anche lo status personale. Poi c’è il cambiamento più grande: diventare responsabili non solo di sé ma di un’altra persona, che per molto tempo sarà completamente dipendente dall’adulto che ne ha cura. In una fase così mobile è facile perdere l’equilibrio e il senso di sé se non si ha una vita, interiore e sociale, ben strutturata; coltivare modalità costruttive e familiarizzare con esse sarà determinante nello sviluppo di una nuova vita.

In questi dieci anni abbiamo avuto la conferma che sostenere le persone che vivono queste fasi della vita in una condizione di disagio significa lavorare per e con il cambiamento; significa introdurre buone pratiche che possano portare stabilità, competenza e, di conseguenza, autostima. L’aiuto materiale che a volte offriamo nel momento del bisogno non è altro che l’innesco per mettere in moto un percorso di riconquista delle proprie capacità: il percorso fatto insieme non deve diventare una nuova condizione, ma essere una fase dinamica di transizione, dalla difficoltà alla capacità, dalla dipendenza all’autonomia.

Possiamo vedere il mondo come un gigantesco e complesso ingranaggio dove ogni nostra azione è una rotella, ogni parola un piccolo bullone, ogni pensiero una goccia di carburante. È possibile, con una spinta attenta e gentile, dare il giusto senso a questo ingranaggio, in modo che il cambiamento possa prendere una direzione costruttiva, verso un mondo – una comunità – sempre più capace di prendersi cura di chi è più fragile.

Paradossalmente è proprio la “divina impermanenza” a regalarci forse l’unica, assoluta certezza: tutto cambia. E nel cambiamento le possibilità sono infinite.

 

E per concludere, ecco il nostro #10yearschallenge!

10 anni

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