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La cura al centro

16 Giugno 2021

Oltre quarant’anni fa il nostro paese ha vissuto una stagione di grandi riforme nell’ambito del welfare ispirate alla necessità di porre al centro di servizi e interventi la persona, i suoi bisogni e i suoi diritti fondamentali. Grazie a leggi importantissime come la 180, che ha sancito la chiusura dei manicomi, la 194 per la tutela della salute riproduttiva della donna e l’introduzione del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, e infine la 833, che ha istituito il servizio sanitario nazionale a base universalistica, il concetto di “cura” si è andato via via integrando a quello di “prendersi cura”.

Si tratta di leggi che hanno sicuramente contribuito a cambiare il volto del nostro sistema sanitario nazionale, ma che spesso sono rimaste indietro rispetto agli intenti iniziali, in parte inapplicate, in molti casi svuotate per fondi insufficienti o utilizzati in modo poco efficiente. Di taglio in taglio, di correzione in correzione, di controriforma in controriforma, siamo arrivati oggi a una sanità che spesso promette – in termini di accesso universale – più di quanto mantiene.

Ai cittadini viene richiesto sempre di più di partecipare economicamente alle spese sanitarie per prestazioni che sulla carta dovrebbero essere garantite dal servizio sanitario nazionale ma che di fatto sono inaccessibili per liste d’attesa lunghissime o perché non disponibili su un determinato territorio. Gli organici dei vari servizi sono ridotti all’osso, e questo ha un impatto non solo sulle liste di attesa, ma anche sulla continuità delle prestazioni e sul tempo che è possibile dedicare a ciascun paziente, sia in termini quantitativi che qualitativi. L’accoglienza, quel momento delicato in cui si stabilisce il contatto tra la persona che ha bisogno di cure e gli operatori sanitari, è spesso sacrificata. Eppure proprio con l’accoglienza e l’ascolto attento e proattivo è possibile avviare percorsi di salute e benessere che superino l’idea di cura come insieme di interventi specialistici e parcellizzati e rendano davvero il nostro servizio sanitario una risposta completa e organica al diritto fondamentale e universale alla salute.

Questa condizione colpisce tutti, ma ha un impatto enorme soprattutto su chi è più fragile, con meno strumenti sia economici che culturali per accedere alle cure di cui ha bisogno: si parla così di povertà sanitaria, una delle tante dimensioni che può assumere la marginalità e il disagio. In questo spazio si è inserito l’intervento delle tante realtà del terzo settore che nei territori hanno cercato di fare da ponte, da cerniera, andando a colmare le distanze tra utenti più fragili e servizi sanitari in affanno o poco accoglienti. E’ questa una parte rilevante anche del nostro lavoro quotidiano, incentrato sulla promozione della salute e del benessere della coppia madre-bambino.

Come spesso accade con le crisi dirompenti, anche quella provocata dalla pandemia di coronavirus ha fatto esplodere in modo drammatico tutti questi nodi e, al tempo stesso, ha fatto emergere anche delle opportunità per il futuro. Il virus ha mandato in forte sofferenza un sistema già in difficoltà. La medicina territoriale, indebolita e svuotata, non ha retto l’impatto della pandemia che si è abbattuto soprattutto sugli ospedali, mandando in tilt non solo le prestazioni più tipicamente ospedaliere, ma anche quelle ambulatoriali, di medicina preventiva. Un esempio su tutti, strettamente legato al nostro lavoro è quello dei percorsi nascita: visite di controllo saltate o riprogrammate quando ormai era troppo tardi, follow-up tralasciati, percorsi di accompagnamento alla nascita cancellati e nel migliore dei casi trasferiti online, informazioni frammentarie, confuse, incomplete, spesso incomprensibili per utenti con strumenti linguistico-culturali inadeguati (stranieri, ma non solo).

Da oltre un anno, quindi, le attività di orientamento e accompagnamento ai servizi territoriali, uno dei pilastri dell’intervento di Pianoterra, hanno assunto un significato ancora più rilevante, divenendo importantissima bussola per persone altrimenti escluse dall’accesso alle cure di cui avrebbero avuto bisogno, con ricadute non solo sulla loro salute individuale, ma anche su quella dell’intera comunità. E la pandemia ci ha insegnato anche questo: che la salute individuale è saldamente intrecciata a quella comunitaria.

Oggi si sta cercando di ripartire, su basi diverse. La lezione sembrerebbe appresa, almeno negli intenti: la Missione 6 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dedica ampio spazio alla valorizzazione delle reti di prossimità, al rafforzamento degli interventi domiciliari e allo sviluppo della telemedicina. Ciascuno di questi punti programmatici ci riporta alla mente momenti del nostro lavoro nell’ultimo anno e mezzo, quando prossimità, flessibilità, tempestività, mediazione e capacità di raggiungere con ogni mezzo possibile chi era “uscito dai radar” hanno fatto la differenza per tantissime persone che seguiamo. Altrettanto incoraggiante è il ruolo che sembrerebbe essere riconosciuto agli enti del terzo settore come attori fondamentali di un nuovo welfare di comunità in cui la cura – degli altri, delle relazioni, dell’ambiente – non sia più residuale ma divenga il perno della vita sociale, politica e culturale.